Cinque pezzi
ISMN : 979-0-2325-5449-5
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Un suono continuo, di indefinita sorgente, soffuso, a tratti incerto, ubiquo, riempie uno spazio vasto, un vuoto che si carica di attesa, un silenzio risonante. E’ infatti un simbolo del silenzio, un suono che precede gli altri, anzi precede il rito stesso del concerto –l’abbassamento delle luci, l’attimo di raccoglimento dei musicisti attendono l’attacco del direttore, parallelo a quello del pubblico che aspetta di entrare nel tempo dell’opera. Questo suono che preesiste e introduce nel tempo, con un valore rituale e cosmogonico, è emesso da un dobaci o campana Tibetana, uno strumento metallico usato nella tradizione buddista di India, Tibet, Nepal e Giappone. Il pezzo comincia dunque raggrumandosi intorno a questo suono continuo che accompagna, come bordone, quasi tutta la prima delle 5 parti di cui si compone l’opera. E’ lo sfondo sul quale si staglieranno, come grumi, interventi asciutti, colpi profondi o secchi, che via via si scioglieranno in respiri, in onde, spume di risacca marina, vibrazioni ctonie, facendo posto a gesti più ampi. Tutto resta però ancora al livello di frammento e non offre all’ascolto se non promesse di discorso, lacerti sintattici cuciti da quell’unico filo sottile che a tratti riemerge dal fondo dimenticato alla superficie della coscienza. L’ascoltatore ancora non lo sa ma quei lacerti sono semi che il tempo successivo farà germogliare, mantenendo la promessa di articolare una più compiuta narratività.
E subito infatti la seconda parte riprende uno di questi momenti‐idee‐presenze e ne porta avanti la storia: sono uccelli che cantano fitti nell’ora serale, i sax soprano e contralto, interrotti da altri versi, forse gabbiani lontani o balene, e ora si trasformano scendendo verso il grave, verso la terra, e si fermano oscillando intorno a un grappolo di note centrali. Avviene una metamorfosi e il grappolo cambia sostanza materica, passa alle tastiere (vibrafono e marimba), lo scenario muta con bruschi scarti facendo posto a varie forme di pulsazione, a un nuovo aprirsi dello spazio sonoro.
La terza parte raccoglie quel pulsare e lo modula secondo una temporalità dilatata dalla vastità di un orizzonte marino notturno: le onde sono ampie e profonde come i suoni strappati ai grandi gong, alle grandi pelli. E dentro queste sonorità si fondono e sciolgono i suoni multipli dei sassofoni, con la loro rugosa incertezza e l’indecifrabile intonazione. Dalla risonanza del mare profondo riemerge il suono indefinito infinito del dobaci (c’è sempre stato?) ora la sua presenza fa da sfondo, nella quarta parte, a un misterioso dialogo. Nella totale diversità di pronuncia il sassofono e il vibrafono recitano l’identico, una stessa linea melodica che non si lascia mettere a fuoco perché, pur partendo simultaneamente, i due non riescono a procedere insieme. E’ una sorta di “canone mensurale” ma l’inseguimento agogico avviene con ruoli continuamente scambiati e il risultato è un’immagine sdoppiata ma anche sfocata poiché l’intonazione dei sassofoni è stata leggerissimamente alterata, strada facendo. Sono brevi frasi lente o accelerate che restano sospese. Gradualmente gli altri strumenti si inseriscono ad arricchire lo scambio caotico di identità. Sono foglie uguali attaccate allo stesso ramo che il vento fa oscillare, confondendole continuamente con quelle dei rami vicini.
Nella quinta parte mani nude tentano di estrarre dalle pelli (djambé, tumba, bongos) un tessuto continuo e parlante di pulsazioni. Ma colpi pesanti come rocce, inattesi come lampi e come tuoni violenti, lacerano continuamente questo tessuto, aprono squarci di silenzio potente da cui riemergono, come evocate, epifanie di recente o lontanissima memoria. Si dirada infine il ritmo parlante e il tempo dei tuoni, mentre le risonanze dei metalli accolgono e disperdono nell’aria rarefatta il respiro dei fiati.
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